Vi postiamo il brano di Ussama Dannawi, vincitore del Primo Premio del Concorso nazionale di scrittura  2013 dei Giovani Musulmani d’Italia (GMI).

Ma il mandala rinasce

di Ussama Dannawi

Strofina, mio caro monaco, su quella robusta cannuccia di bronzo. Luccica, da quanto la sfreghi. Chino su quella stele, coli lentamente granuli di sabbia colorata. Il tuo respiro non s’altera, la tua mente è colma, densa, concentrata. Ragioni su quali sono le dosi, su quanto sfregare e non ti perdi mai nel giudizio dell’opera. Pacato, silenzioso, il tuo lavoro non si ferma. Disegni fiori, persone, piante, l’universo e tutto va avanti.

Il mio viaggio iniziò più o meno verso le quattro di mattina. Quando quel concerto di canti aviari sistrini prendeva inizio nell’aria, m’impegnavo a lottare con un tratto di marciapiede interdetto dove la mia valigia trolley si era incastrata. Prima di riprendere il cammino mi ritrovai a guardare, forse per l’ultima volta, casa mia. Tutto sembrava avverso. L’insegna luminosa della metropolitana, sbiadita e divenuta rosso corallo, la musica che si sentiva in Stazione – l’inno d’Italia per l’esattezza, un’altra forma encomiastica di arrivederci – e i viaggiatori, bianchi in viso e indifferenti al mondo circostante; sembrava che il pallor mortis mattutino li avesse sopraffatti del tutto. Mi chiedevo se quel triste scenario d’addio non fosse opera di qualche pessimo artista decadentista, giunto allo zenit della sua esistenza, che riluttando proprio Le Decadent si fosse adoprato a quell’illusorio tentativo d’arte. Dispiaceva certo, ma l’emotività non si strusse quanto gli occhi miei, che dell’arte avevano fatto il loro naturale modo di vedere le cose. E ora, tra tutti quei bellissimi quadri urbani che potevano essermi destinati, mi rassegnai a ricevere in dono quel cupo disegno malfatto. Ma dovevo andare, non potevo soffermarmi ancora. Viaggiai in prima classe su un treno ad alta velocità. Con appena due ore di viaggio, ti garantivano di oltrepassare quasi trecentocinquanta chilometri di pianura. Non male per un viaggio altrimenti estenuante. Eppure quella comodità non rasserenava, il pensiero si conturbava in una serie di immagini sconnesse. Balzavo da ricordi a esperienze, da esperienze a riflessioni, per finire su una lista di piani futuri che forse non mi sarebbe stato concesso realizzare.
I pensieri si dissolsero quando la voce di un uomo svogliato annunciava attraverso l’altoparlante del treno “Prossima fermata: Bologna centrale”.

Piccoli, si mescolano tra voi per guardare. Osservano curiosi, i giovani monaci, destinati a perpetrare l’antica arte. S’aduncano sull’opera, mentre le fronti ammiccano sudanti di fronte al mandala che prende vita. E i granelli cadono, lentamente. Un fiore, rosso, ha già preso forma.

Mi capitò di restare per circa cinque ore a Bologna, a girare e scoprire alcuni mai visti prima. Esaminavo attentamente i palazzi, l’architettura e le incredibili coincidenze che la accomunavano con Torino, città in cui nacqui. Destava notevole curiosità la quasi completa assenza di balconi sulle facciate dei palazzi, in una coincidenza casuale che richiamava in mente l’intimità delle antiche case arabe, prive anch’esse di ripiani sporgenti verso l’esterno. Incontrai M. che mi mostrò alcune bellezze cittadine, fra cui le piccole facoltà dell’Alma Mater, luoghi di scienza veramente ispirativi dove l’antichità era così permeata nei mattoni da impedire a certe colonne la sussistenza autonoma senza dovuti rinforzi di profili metallici.
La mattina del giorno seguente, avendo dormito per cinque ore dopo lo sfibrante viaggio che mi portò ad Ancona, era il momento di ripartire. Due bocconi al volo, un biglietto di andata comprato all’ultimo, il bagaglio con la cerniera ancora aperta, la voce pacata di un muqri’ attiva nell’iPod infilato frettolosamente nel taschino e la nenia di A., che intonava con fare malinconico. Questi i pochi ricordi che riesco a riesumare.
Dopo esser salito sul traghetto, ammirai il mare, il porto e alcuni gabbiani che si riversavano profusamente al largo delle coste marittime; un panorama senz’altro incredibile, che ti permetteva di esorcizzare i cattivi presentimenti. La forza del vento era così alta che coglieva di soprassalto chiunque uscisse in poppa e lo costringeva, prima di qualunque sentimentalismo, a badare che la sua giacca fosse ben abbottonata o che i ricordi stessi non fossero spazzati da tale voracità inaspettata.
Il resto del viaggio si prosueguì sulle ambulanze trasportate in traghetto. Non erano ambulanze in servizio, sia chiaro. Stracolmi di aiuti umanitari, quei veicoli usati dagli ospedali e poi riacquistati da noi avrebbero salvato altre vite. Da quando scendemmo dal gigantesco mostro metallico navigante, percorremmo circa duemila chilometri, ci fermammo in cinque autogrill, accampammo per una notte in albergo, deviammo la strada undici volte, attraversammo due frontiere di stato, fummo bloccati per una notte al confine greco, mangiammo ventitre panini e quarantasei bicchieri di tè fumante e ci riposammo in due moschee di fortuna. La forza d’animo e la stanchezza convivevano armoniosamente assieme, a discapito dei nostri animi che, di tanto in tanto, dovevano esser rinvigoriti da L. che sparava battute a destra e manca, da H. che con alcune interiezioni accidentali piegava il gruppo dal ridere e da A. che in frontiera al posto di parlare in inglese usava uno strano idioma ripiegato all’italiano maccheronico.
Ricordo che durante il viaggio piovvero gocce celesti per venti minuti e che poi ne caddero giù di dorate per altri trenta, ricordo la musica alla radio che andava e tornava, ricordo che incontrammo un uomo venuto in Grecia con la bicicletta dalla Francia e diretto all’India, ricordo la donna delle pulizie che non comprendendomi mise la mano sul cuore quando le dissi il paese da cui provenivo, ricordo l’autista di Tir bulgaro che non vedeva l’ora di tornare a casa ad abbracciare la figlia, ricordo i militari turchi che quando passammo dal confine si posero all’attenti e ci resero onore con il saluto militare, ricordo la miriade di “Yok” – che in Turco significa “no” – quando insistemmo per non farci pernottare in dogana e ricordo bene anche la miriade d’insulti che non gli rivolgemmo in faccia quel giorno.
Avventura, esperienza di vita, jihad. Esiste una miriade di modi per definire quel che stavamo facendo. Ma lì, sotto l’incapacità di guardar oltre, pareva ancora un semplice viaggio. Incontrammo molti ostacoli, come i freni che emanavano uno strano odore o l’incidente stradale al largo dello stretto del Bosforo. Certe volte sembrava di fluttuare per strada da quanto andavamo spediti. In quattro giorni fummo a Reyhanlı, ultima tappa nell’ex stato ottomano.

Usi a bellezza invisibile per altri umani, i monaci sfregano e sfregano, proiettando sulla tavola il frutto di una benché minima parte del viaggio prima condotto. Manifesti di grande fatica i più piccoli cercano di scoprire come si concluderà quel grande cerchio, mentre le aride teste riflettono l’ ocra, il verde, il blu, il viola e il rosso.

Due minuti prima iniziai a preparare il corano, portandomi sulla surah contenente ayat al-kursi. Cercavo mentre un funzionario turco ci risolveva le pratiche doganali. Prima ancora che potessi trovare i versetti giusti, il mio cuore iniziò a battere follemente e la mente si congelò. Percepii di trovarmi in un altro posto, una terra che riconoscevo tra migliaia. Chino sul corano, sballottante fra le dita sudate, alzai lo sguardo verso l’orizzonte. Da lì non vi fu più modo di riprendere la ricerca sul nobile libro. Chiudevo a fatica gli occhi, non li chiudevo finché non bruciavano, ignaro se le lacrime provenissero per la reidratazione o le emozioni. Una bandiera si sciorinava timidamente su di una collina solitaria. Avevo visto quella bandiera in manifestazioni, dipinta sui volti dei bambini, nell’animo degli esiliati ma mai nel luogo a cui realmente appartieva. Si sposava egregiamente al paesaggio. E poi un cartello accanto diceva: Welcome to Free Syria.
Mi ci vollero più di due minuti per capire che, dopo tre anni di rivoluzione, ero tornato a far visita alla terra che millenni prima ospitò numerosi profeti, che risplendette nel mondo solo per esser stata citata dalle labbra del Profeta, che viene tutt’ora lodata nella Terra dei puri sotto il nome di Sham. Ora, proprio come quei uomini, ammiravo la bellezza che emanava quel suolo, le sue pietre, la sua storia e la sua fertilità. Come poteva un posto così bello esser corrotto da così tanta rovina? Come si poteva lottare sulle pietre pestate dal profeta Giovanni, come si poteva usare la stessa aria respirata dal profeta Zaccaria per denigrare gli innocenti, com’era possibile gettar fango sulla tomba di Khaled Spada di Dio?
Tutte quelle riflessioni mi turbarono al punto da isolarmi dal resto del gruppo, finché poi non fui riportato alla realtà da A., che m’invitò a seguirlo verso l’ufficio doganale. Lì, nella penombra causata dall’incombente tramonto, ci attendeva un gruppo di signori seduti a cerchio lungo il perimetro della stanza. Alti, bassi, barbuti, rossi, bianchi, neri, gialli. Tutti diversi in volto. Ma tutti con la medesima fiamma negli occhi, il bagliore sincero di chi lotta ogni giorno per aiutare, di chi nonostante gli orrori indimenticabili teneva a salvare il sorriso di un bambino più della sua stessa vita. L’emergenza bellica aveva preso il posto della cura estetica tanto da rendere alcuni di loro persone spartane e molto poco attraenti. Ci offrirono un tè bollente alle sei di pomeriggio e c’informarono sul da farsi, spiegandoci le necessità prioritarie del posto e offrendoci il loro completo supporto per realizzarle.
Uscendo da quel posto ci spostammo verso un ospedale di fortuna ricavato da un primordiale ufficio per il controllo bagagli. Lì provai per la prima volta il terribile sforzo di sorridere a bambini mutilati dai proiettili e a giovani ragazzi paralizzati dalle esplosioni. Dovetti sorridere, perché era quella la reazione più umana che potevo dimostrare. Per provare meno vergogna cercai di non tenere un contatto diretto coi loro occhi e quando, accidentalmente, i nostri sguardi s’incrociavano sentivo di poter crollare su me stesso in un paralisi irreversibile di dolore. Su quelle piccole anime vegliavano uomini barbuti ben spesso muniti di armi. Nei loro occhi potevi rilevare solo dolore e autocommiserazione. Potevi forse spiacerti o vergognarti, impostare su strani pensieri politici o economici, ma l’unica cosa che non avresti mai potuto fare era ignorarli. Ignorare l’esistenza di tante persone, rifiutando la legittimità dei loro sogni, delle altrettante speranze e del destino di quelle loro vite. Vite come le nostre che non avevano nulla di meno fortunato. Vite di esseri modellati come noi, educati come noi e gioiosi come noi. Vite di persone che per il fatto di esistere in una terra diversa dovevano patire più dolori in un attimo di quanti ne potessimo affrontare noi in un’intera esistenza.
Risalimmo in ambulanza al crepuscolo diretti all’alloggio riservatoci per il soggiorno in Siria. Mentre ci lasciavamo chilometri di asfalto dietro di noi ripensavo ancora a quelle persone, trovandomi ora davanti un campo dove dicono si sia svolto il più violento conflitto della Siria, per poi passare accanto ad una stazione di servizio mobile costruita sugli antichi rottami di un carro armato di Assad.
Il giorno dopo vissi giorni più intensi e tesi. Era la volta di Aleppo, la città di cui sentivo tanto parlare e che di fatto non avevo mai visto se non nelle foto e in una gita di famiglia da piccolo. Lungo l’autostrada che connetteva il nostro appartamento alla città si percepiva l’alba già calda dell’entroterra siriano, un panorama tuttavia contrastato da catorci di auto carbonizzate che ora fungevano più solo da decoro, ma che un tempo dovevano sicuramente esser state protagoniste di qualche abominevole tragedia. Era strano viaggiare in un auto dove l’unico straniero ero io. Abu M. mi raccontò cosa gli sarebbe servito per il lungo inverno, Abu H. mi spiegò le tattiche aeree più in uso per attaccare i civili. Pensavo tra me e me per puro caso che qualche pilota militare annoiato poteva non essersi privato della divertente mansione giornaliera ed essersi messo alla ricerca di qualche auto in cammino per bombardarla, come la nostra. Stavamo stretti ma ciò rendeva il viaggio in un certo senso rassicurante, mi sentivo protetto da quel gruppo di persone ormai abituate alla guerra. Quando l’auto svoltava velocemente ci schiacciavamo l’un l’altro, ma più faceva male e più mi sentivo al riparo dal male. E poi, improvvisamente, giunse l’inaspettato. Il walkie talkie dell’autista prese vita e una voce poco chiara avvertiva che un aereo militare sorvolava la nostra rotta. Difficilmente si poteva fuggire ad un aereo che in grado di localizzarci e carbonizzarci in meno di cinque secondi. Mi sorprese che, a mia stessa insaputa, non tremai, non sudai e non entrai in forma di panico alcuna. Nulla. Completa normalità. Se avessi solo lontanamente immaginato di trovarmi in una situazione simile cinque giorni prima sul treno per Bologna, forse avrei persino iniziato a redare una sorta di lascito ai miei. Ma ora, quando un aereo avrebbe potuto benissimo centrarci, quando la mia vita, per decisione di un altro essere umano, si sarebbe potuta concludere, ero sereno, riflettevo in un certo senso lo spirito che un comune cittadino siriano avrebbe acquisito nei tre anni di quell’inferno terrestre. Forse era il gruppo che infondeva così tanta pace. Loro sapevano far solo una cosa in situazioni simili: sorridere, parlare dei figli con spensieratezza. Non avevano più nulla da perdere se non il buon posto che li attendeva in Paradiso qualora morti martiri. Scampammo con qualche trucchetto di mimetizzazione il caccia che ci stava sopra e ci avviammo senza neanche una sosta verso Aleppo. Ci trovammo esattamente due minuti prima dell’inizio della preghiera in una moschea del centro. “Allahu Akbar” ricordo. Non dimenticherò quelle sette volte in cui seguì la stessa frase, l’invocazione più bella, detta nel luogo più bello al momento più bello. Finita la preghiera mi accorsi che molti di noi avevano lacrimato; non potevo nascondere di aver fatto lo stesso. Uscimmo di fretta dalla moschea per evitare che succedesse l’inevitabile: cecchini appostati sui tetti di fronte pronti a far fuoco sui fedeli. Non accadde, grazio a Dio. Non con noi. Ci dedicammo al lavoro che ci attendeva: distribuire giocattoli ai bimbi rimasti orfani, girare negli ospedali per consegnare le ambulanze e dirigerci nei centri nevralgici della città per ascoltare le diverse richieste dei centri d’assistenza.
Durante il nostro breve soggiorno ad Aleppo notai che la confusione del conflitto non aveva trovato il coraggio di rompere il codice della desolazione imposto dalla guerra, rendendo la città caotica e movimentata come tutti la descrivevano. Se non altro, girando per gli antichi quartieri di età medievale, la vita continuava a risplendere in tutta la sua bellezza attraverso i mercanti di melocotogne, le bancarelle di melograno rosso come il sangue, i bambini in festa che cantavano in coro le canzoni dell’eid, le luci e gli addobbi nelle strade che ti avvertivano, qualora non lo sapessi, che quello era giorno di giubilo e che la città non si sarebbe mai spenta, che il popolo aveva ancor voglia di vivere e sognare.

L’ultimo granello è rosso. Rosso melograno. Rosso fenice. L’ultimo fiore, in tutto e per tutto uguale ai papaveri delle aride pianure siriache, è concluso. Cala il silenzio. I monaci si alzano e assieme guardano il dipinto. Lo fissano umili per qualche minuto e poi…

Il cecchino che stava sul minareto della Grande Moschea di Aleppo avrebbe potuto spararci presto, perché ci trovavamo esattamente sulla sua traiettoria. Non lo fece. E noi non ci allarmammo. Del resto, dopo una notte trascorsa letteralmente a tremare – non tanto per la paura quanto alle vibrazioni che scuotevano i nostri materassi – era quasi ormai naturale passare nelle zone più critiche e ripetere la shahada divenuta il nostro mantra quotidiano. Nella breve notte di risposo ad Aleppo, resa tale dall’esaurimento debilitante della giornata prima, non vi fu attimo di tregua per i rivoluzionari della nostra zona, che ricevettero e lanciarono a pochi metri di distanza da noi un quantitativo di colpi di mortaio tale da rendere il nostro quartiere una zona sotto attacco a tutti gli effetti. Il giorno seguente le acque si calmarono grazie a Dio.
Diversi tiratori restavano appostati nei luoghi più affollati della città. Ciononostante le frotte di persone spensierate percorrevano tutte le strade indistintamente, pure quelle accostate ai famosi bus capovolti che delineavano le border line fra zone occupate dalle milizie governative e quelle dai rivoluzionari. Dopo tutto, era quasi impensabile vivere dignitosamente senza potersi muovere da nessuna parte. I cecchini governativi si appostano ovunque, persino su quella famosa fortezza che ebbi il privilegio di ammirare a pochi chilometri di distanza e che un tempo fu roccaforte di Greci, Bizantini e Romani o dove si narra che il Profeta Abramo abbia munto la propria pecora.

…il più meritevole fra loro, saggio e indossante un lungo scialle giallo, prende un pomello intarsiato e appuntito con cui traccia una stella ottagonale al centro del cerchio. I monaci dopo di lui compiono semplicemente un gesto: distruggono il mandala, spazzando via la sabbia che forma le sue figure, la sua storia. Ma quel mandala, l’immagine di un attimo infinitesimo di un viaggio, domani sarà diverso. I monaci si recheranno nello stesso posto, colmi di pazienza e spirito. Non avrà importanza se oltre l’oceano un conduttore televisivo starà male o se una madre di un quartiere malfamato allatterà l’uomo che cambierà il mondo.

Mentre tornavo a casa, su quel medesimo treno in cui ora affondavo nella stanchezza, capii che avevo passato più momenti decisivi per la mia salute e la mia anima di quanti non ne avessi mai enumerati. Talvolta è la spensieratezza a renderci immuni dal percepire la svolta fondamentale nella nostra vita. Non ci accorgiamo che l’insieme degli innumerevoli eventi percorsi in un dato periodo ci mutano, gradualmente. In quel breve viaggio che cambiò la mia esistenza vi furono diversi momenti decisivi. Se non fosse stato per la fretta di raggiungere la frontiera greca, per i pensieri riluttanti che invadevano il mio animo – e di cui solo ora comprendo l’utilità –, per la criticità di alcuni momenti in Siria, per il sorriso che mi regalò un ragazzino dagli occhi umidi affetto da amnesia recidiva o per i migliaia di bambini che ci ringraziarono e a Abu M., che pur avendo perso un figlio, ci dimostrò l’importanza d’impugnare una matita e non un fucile, ora non sarei quello che sono. Se nel grande mandala della nostra esistenza ci sono periodi bui, dove tutto pare rovina e desolazione, dove manca affetto e sicurezza, l’atto più nobile ed umano risiede nel pensare che tutto sia caduco, ma che scorra. Nel grande disegno delle cose anche il gesto o l’avvenimento più mediocre definisce quello che siamo. La temporaneità delle cose ci aiuta a comprendere l’avvenire, un avvenire dove il futuro, proprio come un mandala, rinasce.

2017-05-10T10:40:48+02:0022 Marzo 2013|

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