Un faticato ritorno da Auschwitz

Martedì, 28 marzo,  h 22.13

Partivo con questo:  con niente.
Mi dicevo: “ se non porto nulla, non perdo nulla. Non mi rattristo per nulla”
Il vuoto non può subire nessun evento.
Mi sono svuotata di qualsiasi cosa, ho eliminato il mio modo di pensare, di vivere, addirittura il mio modo di mangiare.
Volgevo verso un’altra me stessa, che sapesse al contempo essere me e non esserlo affatto. Mi trasformavo senza trasformarmi. Mi allontanavo il più possibile da me, pur rimanendo dentro di me.
Cercavo addirittura, a volte, di darmi altri nomi.
Partivo con nulla, nella speranza di ritornare piena di altro.
Ma qualcosa ho subito ugualmente.
Percossa da una forza che non riuscivo a dimensionare cercavo di reagire.  Mi cercavo morbosamente, nervosamente.
Chi Sono? Chi sono?
Cercavo di immaginarmi lì, con tutte le altre persone con cui partivo che non conoscevo, e immaginavo di star male. Sentire malessere.
Ma sentire malessere voleva dire allontanarsi dal senso, dal significato. Significava arginare il resto, confinare ciò che ancora non vedevo e che non avrei visto.
Pretendere emozioni davanti a quella realtà voleva dire etichettarla, non comprenderla, viverla ancora una volta da fuori e non coglierne le piccolezze, le realtà più infime, le più nascoste e lontane. Partivo vuota e con l’idea sbagliata, senza nemmeno saperlo. Pretendendo da me cose che non avrei potuto sicuramente darmi. E che tutt’ora non sono in grado di darmi.
Non v’è bisogno ch’io provi una qualche emozione. Perché queste non cambieranno la situazione, non mi aiuteranno di certo a capire a fondo questa realtà, non avrei occhi, non ispezionerei la situazione.  Non vedrei null’altro che quel che ho in testa, che altri mi han trasmesso.
E allora a che pro pretendere che io senta dentro me ribollire un senso di sconforto, di rabbia o di tristezza? Per sentirmi più umana? Per aver prova della mia essenza?
No. Non mi sentirei affatto più viva, solo più lontana da tutto questo.
Se c’era qualcosa che cercavo, ero Io. Mi cercavo senza saperlo.

Ora, tutto quello che sapevo con certezza sul mio conto svanisce e mi ritrovo solo più ad esistere, non più a essere. Io non sono.
Che persona sono?

Questa la domanda che mi ponevo nel viaggio di ritorno. La mia essenza si è disfatta lentamente, fino a dissolversi.
Mi pesa solo più la mia esistenza. Mi cade addosso, piena, pesante, vuota.
Ora capisco.
Solo ora. Mi rendo conto, mi libro.

Così, dopo un libro qualunque mi assale questa necessità di avverare il mio dovere morale verso me stessa.
Scrivere.
E solo ora, a distanza di un mese riesco a riportare avvenimenti ormai passati che mi ritornano, uno dopo l’altro, mi piovono addosso. Mi commuovono.

Camminavo incrociando lo sguardo degli altri ma non vedevo nessuno, assolutamente nessuno. Ero lontana anni luce, seppur sentivo tutte le loro voci. Mi scorrevano accanto, attorno, dietro e davanti, alcuni mi parlavano anche ed io rispondevo pure, ma non c’ero. Solo adesso mi rendo conto che non c’ero. Io non ero lì. Io non ero Io. Il nulla mi avanzava dentro, a piccoli passi, si impossessava di me, dei miei occhi, delle mie braccia, del mio udito, olfatto…
Io non ero più, e a quel punto nulla potevo più. Nulla sentivo più.
Quando mi ripresi ero ormai da un’altra parte, con altra gente, in altre situazioni. Cercavo di ricordare, e nella mia mente c’era solo il vuoto, il nulla. Come se non fossi mai andata in alcun posto, non avessi visto alcun morto, non mi fossi imbattuta in nessuno sguardo triste, avvilito, non avessi avvertito il pianto e le grida di coloro che da lì passarono veramente.  Il nulla.

Ero realmente vuota. Potevo aver dimenticato quel che avevo visto? Mi chiedevo: “come puoi esserti dimenticata quell’orrore, è indegno per un essere umano.” Mi sentivo male perché non vedevo nulla dentro di me. Rivendicavo da me stessa il diritto alle emozioni, alla memoria, ai ricordi, alle immagini; ma io non avevo nulla perché quel che ebbi visto non aveva nulla di me e perciò nulla mi rimase.
A distanza di tempo, il corpo, la mente ebbero il tempo e la forza di rielaborare il tutto. E ora mi ripercorro in testa un documentario su storie, racconti di persone che avevano Nomi, Capelli, Vestiti, e tutto d’un tratto divennero il Nulla. Divennero Numeri, tutti con lo stesso Vestito, senza Capelli, privi di se stessi. Volti, mani, pentole, un  passato, anelli, occhiali, occhi neri, verdi e azzurri. Non era rimasto nulla di loro, a nessuno. Non è rimasto nulla di loro.
Dentro di me li vedo, li sento, come fossero in me. Come vivessero in me di nuovo. Non perché ebbi l’occasione di vederli o sentire la loro storia, ma perché inconsciamente riuscii ad allontanarmi da tutto finché non mi ci addentrai interamente. E ora quella realtà mi si apre come un libro pronto a farsi leggere, senza ch’ io faccia il minimo sforzo.
Ora.. niente, esisto. Mi sento esistere, con dentro la vita di altri che si son visti mancare la possibilità d’essere e d’esistere.
Non è cambiato nulla. Se non la mia vita stessa.

Di Hanan Makhloufi

2018-06-08T20:43:13+02:0022 Giugno 2017|

Leave A Comment